Dietro al pallio vescovile, i due agnelli di santa Agnese

Impossibile confonderla: tra tutti gli altri santi del Paradiso, Agnese si distingue a colpo sicuro, resa immediatamente riconoscibile dal suo piccolo amico a quattro zampe. Sto parlando ovviamente dell’agnellino che è il suo attributo iconografico: ma, esattamente, da dove spunta ‘sta bestiola? Perché Agnese è costantemente accompagnata da quel cuccioletto?

La domanda è più interessante di quanto potrebbe sembrare a prima vista perché, in vita, santa Agnese non ebbe alcunché da spartire con gli agnelli. Le più antiche agiografie dedicate alla santa (tra cui quella di papa Damaso e di sant’Ambrogio di Milano, morti sul fine del IV secolo) ce la dipingono come una ragazza dalla vita tutto sommato abbastanza ordinaria, al netto del coraggio eroico con cui abbracciò il martirio. Agnese era una bambina di tredici anni, così giovane da non essere ancora tenuta per legge a presentarsi al cospetto dei funzionari imperiali per compiere il suo sacrificio agli dèi romani. Avrebbe facilmente potuto evitare la persecuzione, o quantomeno rimandarla di qualche anno: ma la coraggiosissima bambina si impuntò, seguì la sua famiglia fin davanti agli ufficiali e lì gridò con tutta la sua voce il suo rifiuto a immolare il sacrificio agli idoli. Inevitabilmente, il suo atto di fede le valse una condanna a morte: era il 21 gennaio 304 quando la giovane esalava il suo ultimo respiro.

Ma allora, se non ci sono animali in questa storia, come nasce l’associazione tra sant’Agnese e l’agnellino?

A motivarla è un episodio che ci viene presentato da una Passio latina del V secolo, nella quale l’agiografo si sofferma a lungo nel descrivere un prodigio che si compì nell’ottavo giorno dopo la morte di sant’Agnese. Mentre i suoi parenti erano chiusi in un lutto strettissimo, non riuscendo a capacitarsi della morte di una ragazza così giovane, Agnese apparve loro in sogno sussurrando con dolcezza “smettete di piangermi come morta, anzi rallegratevi con me, perché sono entrata a far parte della schiera luminosa dei santi”. Accanto a lei, se ne stava un piccolo agnello: un animale che, per ovvie ragioni, richiamava l’Agnus Dei e dunque simboleggiava, in senso allargato, la santità di una morte non inutile e la promessa di una resurrezione nel tempo che verrà.

Il fatto che sant’Agnese si chiamasse (beh) Agnese fu poi una felice coincidenza, che contribuì a cementare nell’immaginario collettivo l’associazione tra la martire e l’agnellino. Da un punto di vista filologicamente corretto, il nome ‘Agnese’ è la latinizzazione del greco Ἁγνὴ, con significato di ‘puro, casto’; ma, nel Medioevo, a molti piacque la somiglianza fonetica che sembrava legare il nome Agnes al sostantivo agnus, quotidianamente utilizzato per indicare per l’appunto quel capo di bestiame. Nomen omen, verrebbe da dire: e anche questa coincidenza contribuì a far crescere, e poi a rendere indissolubile, il legame tra la santa e l’animaletto.

E forse non tutti sanno che, in omaggio a questa associazione, ancor oggi ha luogo a Roma una tradizione che si ripete ogni anno il 21 gennaio, in occasione della festa della santa, che per secoli godette di una devozione la cui intensità trova pochi paragoni con altre sante donne e che ha lasciato tracce profondissime nella vita quotidiana, nelle tradizioni folkloristiche e persino nella cucina, come oggi ci spiega Mani di Pasta Frolla.

Ebbene: ogni anno, a Roma, nel giorno del 21 gennaio, al termine della messa celebrata a Sant’Agnese fuori le mura, due agnellini vengono portati all’altare e benedetti, secondo una tradizione antichissima che si sviluppò col passar del tempo acquisendo via via nuovi elementi ma che già nel VI secolo è attestata in forma, per così dire, embrionale.

Fino a pochi decenni fa, ad allevare gli animali erano i monaci trappisti dell’abbazia delle Tre Fontane; oggigiorno, i religiosi preferiscono acquistarli direttamente da pastori di fiducia, certamente meglio attrezzati per offrire le dovute cure veterinarie alle pecore in gravidanza. Quando gli agnellini raggiungono l’età giusta per potersi separare dalla madre, i monaci trappisti li consegnano alle suore francescane della Sacra Famiglia di Nazareth che li accudiscono fino al 21 gennaio, data in cui appunto vengono condotti nella basilica di Sant’Agnese per la tradizionale benedizione. A quel punto, gli agnellini vengono donati al pontefice che, come da usanza secolare, provvede ad affidarli alle monache benedettine del convento di Santa Cecilia: saranno loro a occuparsi degli animaletti fino al momento della loro tosatura, a primavera.

E da quella lana verranno ricavati i palli: quelle sottili strisce di stoffa bianca che il papa e gli arcivescovi metropoliti indossano al di sopra della casula o della pianeta. Simbolicamente, il pallio rappresenta la pecora che il buon pastore porta sulle spalle, ed è pertanto simbolo del ruolo pastorale che viene conferito a chi lo indossa: ed è proprio con la lana degli agnellini “di sant’Agnese” che vengono confezionati, ancor oggi, quegli indumenti.

Il papa li benedirà il 29 giugno, nella solennità dei santi Pietro e Paolo, provvedendo poi a farli giungere ai vari arcivescovi metropoliti. E nell’epoca della fast fashion pare quasi impossibile pensare che attraverso i secoli la Chiesa abbia saputo mantener vivo questo lavoro meticoloso e collettivo, rimasto immutato come un pezzo di Medioevo cristallizzato nel tempo e giunto fino a noi attraverso i secoli.


Per approfondire:

Jessica Wärnberg, City of Echoes. A New History of Rome, its Popes and its People (Pegasus Books, 2023)

Una risposta a "Dietro al pallio vescovile, i due agnelli di santa Agnese"

  1. Anonimo

    Ma dopo la prima tosatura per il confezionamento dei palli dove vanno gli agnellini? Rimangono a Santa Cecilia oppure vengono spostati di nuovo? Molto bella questa tradizione, grazie. Elena

    "Mi piace"

Lascia un commento