Cinque inconsuete attività professionali per la suora medievale che voleva auto-sostentarsi

Non penso di andare lontano dal vero, se dico che, in molti casi, la gente tende ad avere un’idea piuttosto stereotipata circa la vita quotidiana di una suora. Ancor oggi, molti di noi tendono a immaginare le suore come bislacche donnine velate che trascorrono la loro vita tra le mura di un convento, a pregare, e a fare non si sa bene cos’altro.
E se questo è vero per gli uomini del 2000 che pensano alle suore loro contemporanee, figuriamoci quanto stereotipata (e idealizzata) e astratta dev’essere, l’idea che ci siam fatti circa la quotidianità di una suora nel passato.
Se pensate alle suore medievali, toh!, con cosa immaginate che le pie donne riempissero le loro giornate? Probabilmente, “rosari”, “privazioni”, “cilici” e “novene” sono le prime cose che vi vengono in mente.

Sbagliato! o meglio: auspicabilmente vero, ma con riserve.
Contrariamente a quanto tenderemmo a immaginare, le suore del tempo che fu non erano dedite a una vita contemplativa 24h/24. Anzi. In un’epoca in cui l’imprenditoria femminile non era, come dire, comunissima sul mercato, i conventi di suore si distinguevano spesso per un tipo di attività abbastanza inedita a quel tempo: vere e proprie imprese, talmente grandi e organizzate da diventare dei colossi del settore, in cui le “impiegate”… erano solo ed esclusivamente donne. Consacrate, perdipiù.

Donne Al Lavoro JouvenceCe ne parla Maria Paola Zanoboni nel saggio Donne al lavoro nell’Italia e nell’Europa medievali (secoli XIII-XV) edito da Jouvence un paio d’anni fa. Il libretto è interessante anche perché permette di far luce su un aspetto molto poco conosciuto: e cioè, che di donne al lavoro nel Medioevo, in realtà, ce n’erano parecchie – anche tra le laiche coniugate, intendo.

Certo è che, guardando ai monasteri, ci troviamo davanti a una situazione assolutamente particolare. Da un lato, il monastero ha bisogno di guadagnare per sostenersi – ché se le suore avessero preteso di mantenersi a suon di elemosine e Provvidenza… campa cavallo. D’altro canto, il monastero ha una ricchezza innata che le imprese laicali possono nemmeno sognare: decine (talora centinaia) di donne, ‘assunte’ a tempo indeterminato, che forniscono manodopera a costo zero, pronte a qualsiasi sforzo pur di non perdere il tetto che hanno sulla testa.

E così, le suore si mettono al lavoro, ingegnandosi in tutti i modi per portare a casa un buon guadagno. Prevedibilmente, la gran parte dei conventi scelse di ritagliarsi un settore nel campo del tessile: filatura della lana, allevamento dei bachi da seta, rammendo dei vecchi stracci, ricamo dei paramenti liturgici. Tutto vero e tutto molto muliebre, però non è finita qui. Le fonti ci rivelano come alcune congregazioni femminili si siano posizionate nel mercato in settori abbastanza sorprendenti.

Curiosi di sapere quale lavoro avrebbe facilmente potuto svolgere una brava suora medievale?

La farmacista

E questo forse non sorprende – ché sappiamo tutti come, nel Medioevo, la preparazione dei farmaci fosse sostanzialmente una questione di erboristeria.
Ecco, diciamo però che le suore si dedicavano all’ars farmaceutica con notevole impegno, giungendo a risultati che non avevano nulla da invidiare a quelli degli speziali professionisti. A Firenze, alla fine del ‘400, almeno sei monasteri femminili erano dotati di un laboratorio farmaceutico aperto al pubblico, nel quale erano impiegate da 50 a 200 suore (il numero variava, ovviamente, da convento a convento). Sono dati notevoli, dobbiamo rendercene conto: i conventi di Santa Caterina e di San Vincenzo d’Annalena – quelli col laboratorio erboristico più fornito – erano farmacie a tutti gli effetti, perfettamente in grado di far concorrenza a quelle rette dagli speziali. Da non trascurare, poi, un dettaglio demografico: in un’epoca in cui ogni famiglia nobiliare aveva una qualche figlia, sorella, zia, in monastero, era molto frequente che “i ricchi” decidessero di servirsi presso il laboratorio in cui prestava servizio la loro parente. Una clientela altolocata, dunque, con conseguente effetto passaparola che portava queste farmacie monacali ad avere una clientela d’élite.
Un business vero e proprio, da far invidia alla Bayer!

La make up artist

O meglio: la venditrice di cosmetici – ché già che hai maturato tutta questa esperienza in fatto di erboristeria, vuoi forse non metterla a frutto anche in settori più frivoli?
Suore, ok: ma pur sempre donne. Donne che avranno pure rinunciato al mondo, ma ricordano benissimo le preoccupazioni e gli affanni di chi invece ci vive ancora. Le ricordano e le capiscono molto meglio di uno speziale maschio, sol per quello: e infatti, non era infrequente che i laboratori farmaceutici dei monasteri offrissero a catalogo dei veri e propri prodotti di make up. Ricercati dalle dame più facoltose, come detto sopra – e ricercati nella ragionevole certezza di trovare, dall’altra parte del bancone, una che è donna, e in quanto donna ne sa.
Anche quello, era un business non da poco (soprattutto perché relativamente esclusivo)!

La fabbricante di occhiali

Ebbene sì. Gli occhiali hanno una Storia strana, legata a doppio filo agli ordini religiosi, che per lungo tempo furono molto vicini al detenere il monopolio della produzione di lenti da vista. Un caso emblematico è il monastero dei Santi Salvatore e Brigida al Paradiso fondato verso la fine del ‘300 poco al di fuori della città di Firenze. Si trattava di un convento molto particolare, come già lascia intuire la doppia titolazione: caso non infrequente nel medioevo, il convento ospitava religiosi maschi e religiose femmine all’interno della stessa struttura.
Pare che fossero soprattutto i religiosi maschi a dedicarsi alla manifattura degli occhiali, e pare che fossero soprattutto le religiose femmine a gestire tutto il resto delle incombenze che girava attorno alla messa in vendita di questi innovativi strumenti in grado di… ridare la vista ai ciechi.
Venduti al dettaglio ai privati cittadini in una bottega attiva presso il monastero, gli occhiali made in convento erano prodotti in quantità ingenti, tali da consentire addirittura una esportazione: sono noti casi in cui carichi di lenti da vista partirono alla volta di Pisa, Mantova, Roma… e persino Lisbona!

Le pastaie con strani intrallazzi col fisco

Nel senso che, in virtù dello speciale rispetto che si tributava alla Chiesa, la vendita di alimenti prodotti all’interno dei monasteri godeva di una tassazione agevolata rispetto a quella riservata ai ‘comuni mortali’. In quei centri cittadini in cui la produzione di pasta costituiva un gettito importante per l’economia locale (uno tra tutti, la città di Napoli) capitava di frequente che i pastai laici scendessero in piazza per protestare contro questa concorrenza sleale… senza mai ottenere risultati concreti, per la verità.
Anzi: la produzione di pasta e panificati – beni di consumo di largo uso, dunque in grado di garantire guadagni ingenti – era una fonte di reddito importante per i monasteri, dove le suore si dedicavano sì alla produzione di pasta tipo cenci o vermicelli, ma erano particolarmente versate anche e soprattutto nella cosiddetta “pasta modellata” – cioè quelle pagnotte che ancor oggi vediamo in qualche gastronomia, fatte di pasta di pane intrecciata a formare figure varie. Il classico cuoricino di pane per San Valentino o il brezel tirolese, per capirci.

Le libere professioniste dedite al lavoro in proprio

…che per una suora non è tanto tanto bello.
Nonostante il voto di povertà, che in teoria avrebbe costretto le monache – beh – alla povertà, va detto ahimè che alcune suore medievali si infischiavano allegramente di questo precetto (su cui invece calcò moltissimo la Chiesa della Controriforma, usando il pugno duro per cancellare questo tipo d’abuso). E così, capitava spesso che la suora – magari divenuta nota per le sue capacità professionali in virtù dei servigi prestati presso la bottega del convento – accettasse dei piccoli lavoretti “in regime libero professionale”, da svolgere nella sua celletta nelle ore dedicate al riposo. A Firenze, ad esempio, una religiosa delle Convertite, celebre per la perizia con cui ricamava con filo d’oro, guadagnò la somma ragguardevole di 55 fiorini, che trasformò nel 1511 in un vitalizio di 5 fiorini annui, per le sue personali necessità.
Se questo è un caso estremo, era invece abbastanza frequente per le monache confezionare merletti, piccoli accessori, dolciumi, e oggettini d’uso comune, da rivendere poi a conoscenti, parenti e amici. Scopo: mettere da parte qualche spicciolo, per se stesse o per parenti in difficoltà. Una infrazione al voto di povertà che si tentò spesso di contrastare, sia con provvedimenti interni ad opera della singola badessa, sia con vere e proprie leggi cittadine che vietavano alle consacrate questa singolare forma di… libera professione.
Come già detto: sarà la Chiesa della Controriforma a mettere fine con durezza a questo tipo di abuso. Che abuso era. Epperò la dice lunga, sul grado di libertà con cui le suore medievali potevano muoversi, e guadagnarsi, tra le mura del convento, un (rispettabilissimo) posto nel mondo.

14 risposte a "Cinque inconsuete attività professionali per la suora medievale che voleva auto-sostentarsi"

    1. senm_webmrs

      “Suore”, di certo. Le monache erano di clausura. Ho un bel caso a Siena, di un convento di “povere”, fondato nel Tre/Quattrocento. Le suore lavoravano sia in casa (filatura e tessitura), sia andavano in giro a lavorare come braccianti stagionali e a questuare. Nel seconda metà del Cinquecento resistettero per parecchio tempo agli ordini di entrare in clausura proprio sostenendo che da claustrali non ce l’avrebbero fatta a tirare avanti.

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    2. Lucia

      Scusate il ritardo nella risposta 😀

      In realtà… qui ho fatto (volutamente) un po’ un mischione visto il tono divulgativo, ma si parla sia di monache sia di suore, a seconda dei casi.
      Di terziarie no: o meglio, c’erano tantissimi casi in cui le suore appaltavano alle terziarie determinate fette di lavoro, ma quell’aspetto l’ho lasciato da parte.

      Parlando di monache, il libro di Maria Paola Zanoboni ad esempio mi cita di casi di

      – monache benedettine amanuensi, dedite alla produzione di testi sacri (soprattutto in Germania);
      – monache benedettine che producevano paramenti liturgici per i sacerdoti (un po’ ovunque);
      – monache agostiniane tuttofare, che si dedicavano a ricamo, copiatura di manoscritti, occupazioni manuali di precisione (il libro cita in particolare il monastero di S. Maria del Fiore a Badia Fiesolana, dai cui registri emerge che le monache acquistavano occhiali da presbite in quantità esorbitante, probabilmente proprio come aiuto per le consorelle ormai anziane che però si dedicavano ancora al lavoro.

      Diciamo che le monache svolgevano quei tipi di lavori che non richiedevano contatto con il pubblico (ovviamente). A rivendere i testi copiati, i paramenti confezionati, i capi ricamati… insomma, a fare da tramite col mondo esterno, ci avrebbe probabilmente poi pensato qualcun altro. Monache che gestissero una bottega di erboristeria annessa al convento e aperta al pubblico: ecco, ovviamente quelle non esistevano. I lavori “a contatto col pubblico” erano appannaggio delle suore, per ovvie ragioni.

      La Zanoboni dice anche che alcune regole avrebbero impedito alle monache di accettare questo tipo di lavori per commissione, ma poi all’atto pratico le signore li accettavano lo stesso (es. le monache benedettine, che confezionavano paramenti liturgici per i monasteri maschili come fatto d’abitudine, sebbene la regola benedettina in teoria lo proibisse).

      In altri casi, cito direttamente dal libro, “se non era permessa la produzione per il mercato, la cultura del dono era molto diffusa […]: donavano ricami, disegni, mazzolini di lavanda e fiori essiccati, acqua di rose, dolcetti di zucchero, per essere ricordate e per rimanere in contatto col mondo esterno, con una frequenza tale che il regolamento di alcuni conventi finì col proibirlo”.

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