Amatissimo in tutto il centro Europa (e soprattutto in Francia, di cui è patrono) san Martino viene festeggiato l’11 novembre – e questa non è data che possa passare inosservata.
Non è data che possa passare inosservata, perché la festa di san Martino cade in un periodo che era di enorme importanza per una società rurale, come era ovviamente quella medievale. Se la festa di san Michele (29 settembre) era in molte aree d’Europa una vero e proprio “capodanno agrario”, il giorno di san Martino assumeva lo stesso ruolo in quelle zone in cui il lavoro nei campi poteva proseguire ancora lungo tutto il mese di ottobre (magari a causa di un clima più mite).
Ma nel giorno di san Martino… beh: la stagione si chiudeva per davvero. E allora i paesani si preparavano per il freddo inverno, gli innamorati cominciavano a progettare le future nozze, i contadini lasciavano la cascina alla ricerca di un miglior contratto: era insomma il chiudersi di un ciclo e l’aprirsi di una stagione nuova.
Come sempre capita in questi frangenti, le varie comunità svilupparono col passar dei secoli tradizioni e usanze particolari. In un clima dolceamaro da “ultimo giorno di lavoro”, la popolazione si radunava, scherzava assieme e faceva festa. Al grido di…
“Ingozzati! È la tua ultima occasione!”.
Questo periodo dell’anno era quello in cui, nelle cascine, venivano macellati gli animali che non si intendeva conservare per l’inverno. Maiali, vacche e oche in quantità venivano uccise suppergiù in questi giorni (e poi insalamate, essiccate, messe sotto sale per rifornire le dispense nei mesi a venire).
Va da sé che, se stai macellando bestie, ti sarà facile tenere da parte un buon pezzo di carne fresca (magari l’ultimo della stagione!) con cui preparare un arrosto delizioso. E così, nel giorno di san Martino, era tradizione riunirsi in grandi tavolate ove si consumavano prelibatezze di ogni tipo (…e magari anche un po’ di selvaggina. Ché la stagione della caccia si apriva proprio a inizio mese).
A ‘sto punto, vuoi non stappare un buon vinello?
In fin dei conti: se c’era un momento buono per darsi alle libagioni, era proprio questo periodo dell’anno. A vendemmia ormai conclusa, il vino nuovo era appena stato imbottigliato: rimpinguate le scorte, aveva molto senso stappare quella damigiana rimasta giù in cantina (se non altro, per far spazio alla botte nuova). Tra carni arrosto, scorpacciate e vino che scorreva a fiumi, c’erano davvero tutti gli elementi per una festa popolare in grande stile, di cui Bruegel ci offre un gustoso assaggio nel quadro che vedete in apertura. Non a caso, nella Francia medievale, chi accusava il mal di san Martino era vittima di un post-sbornia particolarmente violento… cosa assai frequente, all’indomani del dì di festa.
E vogliamo poi parlare dei dolciumi? Già che c’erano, le massaie si industriavano per produrre dolcetti l’uno più buono dell’altro, ad accompagnare cotanta mercanzia. E su questo punto, non siamo impreparate: seguite questo link per vedere qual è il dolce che ha deciso di proporvi oggi Mani di pasta frolla nell’ambito della nostra collaborazione mensile alla scoperta dei legami tra Chiesa e gastronomia.
“Festeggia! È la tua ultima occasione!”.
Alessandro Vanoli, autore di un libretto dedicato a questa stagione, sostiene con efficacia che “la magia dell’inverno” ha cominciato a essere apprezzata solo quando la gente è stata messa in condizione di ammirarla al di là di una finestra senza spifferi, in una casa confortevolmente riscaldata da un termosifone.
Per tutto il resto della Storia, l’inverno è stata una stagione che faceva mediamente schifo: si mangiava poco e male, si soffriva un freddo boia, si scatarrava da mane a sera e si seppelliva un botto di gente. Le feste popolari di fine autunno (Ognissanti, san Martino, sant’Andrea…) erano davvero un’ultima occasione di svago prima che cambiasse il mood globale.
Nel caso di san Martino, esisteva anche una tradizione liturgica a corroborare il sentimento popolare per cui “oggi è l’ultima occasione per far festa”: nella Gallia merovingica, era consuetudine far iniziare il giorno dopo san Martino il periodo penitenziale in preparazione al Natale. Quello che noi, oggi, chiamiamo “Avvento”, nella Francia altomedievale si chiamava Quadragesima sancti Martini e vincolava i fedeli a un programma di astinenza e di digiuni che non aveva niente da invidiare a quello della quaresima “di Pasqua”.
La tradizione non durò a lungo: nell’arco di pochi secoli, si impose quasi ovunque l’Avvento “romano” di quattro settimane. Ma nella Francia antica la stagione di penitenza iniziava ben prima – e ben più rigidi erano i sacrifici dei fedeli!
A suo modo, dunque, la festa di san Martino ricopriva il ruolo di… Carnevale, prima della quaresima!
“Ridi! Se non oggi, quando?”
E che si fa, tradizionalmente, a Carnevale?
Ma certo: si ride, ruzzolando talvolta nel grottesco (e nello sconcio, particolarmente gettonato in quel giorno specifico).
Curiosamente, le barzellette zozze che venivano raccontate in occasione del giorno di san Martino mantenevano spesso un legame con la dimensione religiosa della festa.
In alcuni casi, per esempio, prendevano di mira sacerdoti dalle perfettibili virtù cristiane, cui accadevano episodi incresciosi nel mezzo della celebrazione in onore del santo.
In altri casi (secondo me, i più gustosi) san Martino era uno dei protagonisti della storia. Tipicamente, agiva sottoforma di “genio della lampada”: appariva cioè ai suoi fedeli più devoti, offrendosi di esaudire un numero limitato di desideri. Ma i rozzi contadini oggetto di cotanta grazia erano così stupidi da sprecare l’uno dopo l’altro tutti i miracoli offerti dal santo, ritrovandosi così con un pugno di mosche in mano (mentre san Martino, desolato, se ne andava scuotendo il capo).
Per chi non ama questo umorismo alla Zelig, segnalo anche i carnascialeschi dibattiti cui si dedicavano gli intellettuali nel giorno della festa. Nelle università, gli studenti si lanciavano in dotte disputationes sull’annosa questione “è meglio l’estate o l’inverno?”. In Germania, erano particolarmente apprezzate le battaglie politiche in difesa degli animali (in un’epoca in cui una cosa del genere era chiaramente da considerare satira). Ad esempio, era possibile imbattersi in poeti che cantavano per le strade tristi nenie in cui gli animali da macello piangevano per l’imminente genocidio della loro specie (e ripeto: a noi l’idea fa stringere il cuore; a loro faceva morir dal ridere).
“Fai regali! Fallo in onore del santo!”
L’episodio più celebre della vita di san Martino è probabilmente quello in cui il santo taglia in due il suo mantello per farne dono al mendicante. Proprio in virtù di questo aneddoto la Chiesa medievale invitò i benestanti a onorare la festa religiosa con qualche atto di carità a favore dei più bisognosi (all’alba di una stagione che, ripeto, comportava per molti stenti e miseria).
La tradizione di fare l’elemosina a chi bussava di porta in porta si trasformò col passar del tempo in una vera e propria distribuzione di doni, che non riguardava più esclusivamente i mendici. Anche i sottoposti, i vassalli, gli amici, i bambini potevano trarre vantaggio da questa usanza: il poeta Walther von de Volgeweide scrisse di aver ricevuto in dono un meraviglioso mantello di pelliccia da parte del vescovo Wolfger di Passau, in occasione del san Martino 1203. Meno fortunati i suoi colleghi Ugo Primate e Archipoeta, che nelle loro poesie satiriche infierirono invece contro gli ecclesiastici locali, dal braccino così corto da non far regali nemmeno in quest’occasione.
Per contro, nella Franconia, prese piede col passar dei secoli una tradizione curiosissima che sopravvive ancor oggi. Nacque cioè nell’immaginario popolare la figura benevola di Pelzmartin, niente po’ po’ di meno che un san Martino preso dal grave compito di distribuire regali ai bimbi, su modello di Babbo Natale.
Là dove questo personaggio del folklore sopravvisse più a lungo, si ebbe col passar dei secoli uno slittamento semantico in virtù del quale oggi Pelzmartin viene (erroneamente) ritenuto sinonimo di Pelznickel. Sennonché, anche un bambino si renderebbe conto che i due nomignoli richiamano due personaggi diversi: san Martino il primo, e san Nicola il secondo. Tutti e due accomunati dalla smania di portare doni a grandi e piccoli.
Come distinguere i due personaggi nelle raffigurazioni d’epoca?
Molto facile: Pelnickel, essendo ispirato a un santo che è noto innanzi tutto per le sue funzioni di vescovo, è tradizionalmente vestito di rosso (e spesso indossa un berretto a punta, eco della mitra).
Pelzmartin, essendo ispirato a un santo che è famoso innanzi tutto per l’episodio che lo vede cavaliere, indossa abiti marroni dall’aspetto più “laicale”… o, tutt’al più, se ne va in giro vestito da monaco.
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