L’ambigua lotta tra il Carnevale e la Quaresima

Qualcuno potrebbe anche scrivere, con un po’ troppa approssimazione, che fu la Santa Sede la prima a organizzare la prima festa di Carnevale della Storia.

Sarebbe un’approssimazione; come minimo, bisognerebbe senz’altro precisare che stiamo parlando della prima festa di Carnevale della Storia di cui ci sia giunta testimonianza scritta.
Ma intanto: così è. E infatti, fu scritta proprio dentro le mura di San Pietro la cronaca di un certo canonico Benedetto che, attorno all’anno 1140, descriveva i tradizionali festeggiamenti che si tenevano in Roma nell’ultimo giorno di Carnevale. Nel Martedì Grasso, il papa si concedeva agli occhi dei sudditi in una cavalcata cerimoniale fin alla collina del Testaccio, ove lo attendevano il prefetto della città e molti nobili cavalieri. Lì, al loro cospetto, aveva luogo quello che il canonico Benedetto definisce il ludus Carnelevari, e cioè l’uccisione cerimoniale (probabilmente, in una manifestazione simile alla corrida) di un orso, un gallo e alcuni torelli.

Il gioco, che continuò ad essere praticato sul Testaccio per i seicento anni successivi, aveva davvero lo scopo di sottolineare la rinuncia alla bestialità sfrenata in vista di una Quaresima di rigore morigerato, come suggerisce il cronista Benedetto? Forse sì, forse no, forse sì ma solo in parte: certo è che il Carnevale non spunta dal nulla nel secolo XII, e neppure nasce come festa esclusivamente religiosa. Sicuramente si plasma in un momento indistinto della Storia emergendo dai detriti di tante feste di matrice pre-cristiana aventi lo scopo di festeggiare la fine dell’inverno e l’arrivo dell’agognata primavera. Ad esempio, sappiamo per certo che era sicuramente una antica usanza pre-cristiana quella di travestirsi con maschere animali a fine inverno, in una sorta di rito di fertilità che doveva simboleggiare il risveglio della natura dopo i mesi penosi del letargo e del gelo.

Riti diffusi e affascinanti; riti che, tuttavia, hanno ben poco a che vedere con il Carnevale in sé e per sé come l’ha conosciuto l’Occidente cristiano. Perché il Carnevale, lo dice il nome stesso, non avrebbe ragion d’essere se non vi fosse una Quaresima; sicché, il Carnevale dei cristiani è, in sé e per sé, una festa profondamente religiosa, che non può essere indagata se non in contrapposizione col periodo penitenziale che lo segue.

Come per tante cose della Chiesa, la Quaresima ha una evoluzione graduale che si consuma nel passar dei secoli. Fin da subito, la Chiesa aveva suggerito ai suoi fedeli alcune pratiche penitenziali da compiere nel periodo pre-pasquale; ma la Quaresima per come la si è conosciuta a lungo, con quell’insieme di pesanti rinunce alimentari che vengono imposte a tutta la cristianità (e non solo ai religiosi) per l’intera durata dei quaranta giorni (e non solo nei tempi forti) riesce a imporsi efficacemente non prima dell’VIII secolo. È probabilmente in quel momento che prende vita, non visto, l’embrione del Carnevale; e qualcosa stava certamente succedendo sottotraccia, se già a partire dal X secolo i registri degli atti notarili ci testimoniano, qua e là, l’esistenza in vita di individui che avevano cognomi tipo Carnelevare o Carnisprivum.

Sicuramente, entro il XII secolo e in concomitanza con la rinascita delle città, il Carnevale è festa ormai nota e amatissima: viene celebrata in pompa magna nei grandi centri abitati, lasciando (finalmente!) traccia di sé nelle cronache.

Festa sfrenata e piena di gioia; festa insensata e ambigua, quella del Carnevale.

“Ambigua” perché induce alla baldoria laddove non ci sarebbe un bel niente da gioire; “insensata” perché il suo stesso esistere è come un cupo rintocco che preannuncia ciò che sta per venire. È insensata e ambigua comunque la si guardi: per essere una festa popolare di fine-inverno, si tiene in un periodo in cui è decisamente prematuro dire che ormai si è fuori dai rigori della stagione fredda. Per essere una festa del godimento illimitato, c’è un certo amaro sadismo nel festeggiare con mangiare senza ritegno alla letterale vigilia del periodo che impone il digiuno più rigido dell’anno. E lo impone non solamente per una questione religiosa (che pure era importante e permeava a fondo la società): a fine inverno, erano ormai giunte all’esaurimento quasi tutte le scorte fatte per la brutta stagione, e anche gli animali che potevano esser sacrificati erano già stati mandati al macello. E ci sarebbe voluto ancora un (bel) po’ prima di poter gustare in abbondanza i doni meravigliosi della primavera.

Sarebbe il caso di rifletterci e di interrogarsi seriamente: ma dopo tanto festeggiare gaudente, alla fin fine chi vince nello scontro tra il Carnevale e la Quaresima?

Entro il XII secolo, la lotta tra questi due momenti era già diventata topos letterario. Il primo è costituito da un poemetto francese, Bataille de Caresme et de Charnage, nel quale i cibi di magro e i cibi di grasso combattono una dura guerra schierandosi in due armate contrapposte. Da un lato, i pesci; dall’altro, le carni spalleggiate da uova e latticini; mercenarie, le infide verdure se ne stanno un po’ qua e un po’ là, a seconda del condimento che le accompagna. La feroce guerra si chiude con la resa di Quaresima, che pur di ottenere la pace sul mondo di rassegna a limitare il suo dominio a poche settimane l’anno; e tuttavia, lo status di Carnevale si fa sempre più incerto col passar dei secoli, laddove le lotte tra lui e la Quaresima cominciano a veder contrapposti direttamente le due parti in causa, personificate.

Il cavalier Carnevale è pingue, roseo in volto, spesso accattivante e frequentemente seduttore, circondato da donne che non hanno occhi che per lui. Ma forse non sa già, lo spettatore, che il ridanciano cavaliere sarà messo in fuga da signora Quaresima, che impassibile avanza nel suo cereo pallore, con ieratica serietà morigerata? Ben poco durerà il regno del cavaliere, prima che Quaresima ricordi a tutti il fine ultimo della vita umana.

Va pur detto che, in molti casi, le scorpacciate del Carnevale si spiegano esattamente con questa frenesia da “ultimo minuto” che spingeva la brava gente a dare fondo alle ultime scorte di cibi proibiti prima che la legge ecclesiastica ne vietasse il consumo. Quello che noi definiamo Martedì Grasso e che gli Inglesi chiamano Pancake Day si è guadagnato il suo nome d’oltremanica esattamente per questa ragione: essendo vietato il consumo di uova per l’intera durata della Quaresima, diventava urgente consumare in un colpo solo tutte le uova che erano già in dispensa, trasformando in gloriosa abbuffata ciò che, diversamente, sarebbe comunque stato spreco. E anche tutte le fritture di carnevale, cotte e ripassate nel burro e nel lardo; per non parlare poi di tutte le prelibatezze a base di carne che in questi giorni si consumano con dovizia: altro non sono che un modo gaudente per svuotare la dispensa, prima che sia il sacerdote a ordinare la messa al bando di certi cibi. Oggi, Mani di pasta frolla vi propone uno di questi manicaretti carnascialeschi, in una nuova puntata della nostra collaborazione gastro-cattolica, ben sottolineando la differenza ontologica tra le “frittelle di magro”, che “sono senza uova e vengono fritte nell’olio” e le sontuose frittelle preparate entro il Martedì grasso, “che si fanno con le uova e sono fritte nel lardo”. Ingredienti destinati a sparire allo scoccare della mezzanotte, peggio che la scarpetta di cristallo della fiaba di Cenerentola.

E allora: grandi mangiate e grande festa, nei giorni dolceamari del Carnevale. A seconda delle zone e delle tradizioni locali, il cibo poteva essere offerto dal signore locale in sontuosi banchetti di corte o persino in sagre paesane a favore della popolazione; poteva essere mendicato, strappato scherzosamente di mano alla brava gente nelle fiere; distribuito in dono ai bambini e ai poveri; talvolta poteva essere cacciato, in aree di caccia che normalmente erano interdette alla popolazione. Se ne faceva dono alle chiese e ai conventi, affinché i religiosi lo ridistribuissero ai poveri oppure se lo godessero in prima persona; talvolta, il cibo veniva addirittura buttato via in segno di opulenza – e se ancor oggi il Carnevale di Ivrea mette in scena battaglie di arance inevitabilmente destinate al macero, dobbiamo immaginare che in passato scene di questo tenore fossero ben più frequenti, nei sontuosi palazzi delle corti benestanti, con orde di nobiluomini festaioli che si tiravano addosso salamini, forme di formaggio e uova sode come proiettili.

E poi, naturalmente, come sempre accade, la festa diventava occasione perfetta per indulgere in lazzi, travestimenti, e follia collettiva. Non era il Carnevale l’unica festa dei folli presente nel calendario medievale (che anzi, era costellato di questi eventi per una parte significativa dell’inverno); ma è sicuramente antica, di matrice medievale, la consuetudine di travestirsi per fingersi chi non si è e di trasformarsi in poveri, se si è ricchi; in donne, se uomini; in religiosi, se si è poveri ma si riesce da qualche parte a reperire un saio. Il Carnevale era anche una festa all’insegna della libertà sessuale: a Venezia, ad esempio, le donne nubili erano libere di accompagnare senza accompagnatore; le commedie ardite e i lazzi osceni erano moralmente giustificati, in quei giorni; si chiudeva (ahimè) un occhio persino sugli atti di esibizionismo e sulle molestie neanche tanto velate cui erano fatte oggetto le donne.

“Perché questo è uno dei segreti antichi dell’inverno”, commenta Alessandro Vanoli con la sua consueta capacità evocativa nel libro che ha dedicato alla stagione più fredda dell’anno: “di fronte alla morte della natura non si può rimanere indifferenti; occorre partecipare alla rinascita che il mondo ci chiede”.

Sarà una rinascita lenta, non priva di dolore, con un travaglio della durata non indifferente di quaranta giorni. Ma quando tornerà a risuonare l’Alleluja, e gli agnelli beleranno sui prati e i pulcini romperanno pigolanti le loro uova: allora, la morte sarà stata vinta una volta ancora. E allora sì che sarà festa vera, e per sempre.

7 risposte a "L’ambigua lotta tra il Carnevale e la Quaresima"

  1. Rita

    Quindi le frittelle di riso senza uova che qui a Siena vengono chiamate”frittelle di San Giuseppe” sono proprio tipiche della Quaresima e non, come credevo, uno strappo alle sue privazioni!

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  2. Anonimo

    Una lotta tra Carnevale e Quaresima in poesia non l’avrei mai immaginata 🙂
    Che spreco, però. Conoscevo la faccenda delle frittelle, e capisco la necessità di togliersi di mezzo le tentazioni, ma dopo la Quaresima arriva la Pasqua… Da noi, le masssaie conservavano le uova nella semola (mia madre lo fa ancora, funziona meglio del frigorifero) per poterci preparare le torte di Pasqua, che sarebbero poi state benedette il Sabato Santo.
    Domanda. Visto che di domenica non si digiuna, e non si digiunava neanche prima dell’ultimo Concilio (ho la mamma preconciliare, io), sai qualcosa sul come se la cavavano? Grazie.

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