Ma è vero che la Chiesa consentiva di bere la cioccolata calda anche nei giorni di penitenza, forte dell’assunto per cui “liquidum non frangit ieiunium” e quindi tutto sommato non sarà un problema se, nei giorni di digiuno, i fedeli mortificano il loro corpo scofanandosi una decina di tazze di Ciobar?
La notizia viene tirata in ballo periodicamente, inevitabilmente accompagnata da sorrisetti maliziosi al pensiero di quei papi che, in pubblico, fustigano i costumi della brava gente e poi, zitti zitti, creano escamotage per permettersi piacevoli digiuni a base del loro dolce preferito. Di tanto in tanto, questo gustoso aneddoto si trasforma addirittura in mito fondativo: nella mia Torino, si mormora che il bicerin (una bevanda a base di caffè e cioccolato, ideata da un locale che aveva sede davanti al principale santuario cittadino) sia stato creato proprio grazie a questo escamotage, appositamente con l’intenzione di rimpinzare con colazioni deluxe anche quei fedeli che stavano andando a Messa e che in teoria avrebbero dovuto restare digiuni fino al momento della Comunione. Ma un mega-tazzone di cioccolata calda arricchito con caffè, zucchero e crema di latte non era certo un alimento capace di spezzare il digiuno!
Rimandandovi al blog di Mani di pasta frolla per tutte le indicazioni necessarie su come preparare in casa un ottimo bicerin, debbo però fare la guastafeste; se già vagheggiavate di fioretti quaresimali sulle linee di “mi impegno a far penitenza mangiando Nutella a cucchiaiate”… ecco, la cosa non funziona esattamente così.
Sì, è vero: a un certo punto della Storia, la Chiesa (nella persona di papa Gregorio XIII, con un provvedimento ratificato da numerosi suoi successori) consentì effettivamente il consumo di cioccolata liquida nei giorni di digiuno. Ma, prevedibilmente, la storia è più complessa di quanto possa sembrare a prima vista (e, desolatamente, lascerà a bocca asciutta i più golosi).
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Per affrontare appropriatamente la questione, lo storico deve necessariamente domandarsi: che cos’era, esattamente, la cioccolata liquida, ai tempi di papa Gregorio XIII (1501-1585)? Carte alla mano, la risposta è inequivocabile: all’epoca, la cioccolata era considerata un potente ricostituente; o, per i sani, un tonico energizzante, che aiutava a concentrarsi meglio e riempiva le membra di energie. Una sorta di super-Red Bull, per capirci.
Dal punto di vista della medicina galenica, i semi di cacao erano considerati un alimento freddo, capace di riequilibrare gli umori nell’organismo di un paziente che soffriva per un eccesso di calore. Se le febbri non davano tregua, se il temperamento tendeva all’ira, se una malattia esantematica infiammava la pelle del malato, ecco che il cioccolato avrebbe potuto essere un valido ausilio per la guarigione. Occorreva però stare attenti a consumare cioccolato a uso medico, e cioè “in purezza”: sì, perché i cuochi che lavoravano i semi di cacao con l’unica intenzione di appagare il palato tendevano ad aggiungere alle loro preparazioni spezie aromatiche e piccantine. Vaniglia e cannella erano certamente molto gradite, ma il cioccolato più apprezzato all’epoca era quello che portava con sé l’aroma del peperoncino: e, naturalmente, l’aggiunta di sostanze così “calde” finiva col neutralizzare gli effetti benefici dei freschi e refrigeranti semi di cacao.
E già queste considerazioni ci spingono a domandarci: ma esattamente, di che tipo di cioccolato stiamo parlando?
Certamente, non si trattava di quella che noi troviamo compriamo al supermercato, in barrette incartate nella stagnola: i cioccolatini esistevano già, come costosissima prelibatezza per pochi eletti, ma il cioccolato in forma solida cominciò a diffondersi tra il grande pubblico solamente a partire dal XIX secolo. Fino ad allora, il termine “cioccolato” era utilizzato nel 99% dei casi per indicare la cioccolata liquida in tazza: che a sua volta era molto diversa rispetto a quella che mangiamo oggi.
Per riferirci a prodotti commerciali che conosciamo tutti, non dovremmo paragonarla al Ciobar quanto più al Nesquik: i semi di cacao venivano lasciati in infusione in una cioccolatiera piena di acqua calda, dando origine a quella che era (di fatto) una tisana. I più golosi (cioè, quelli che volevano semplicemente bere qualcosa di buono e non avevano esigenze mediche particolari) potevano decidere di utilizzare una base di latte, in vece della semplice acqua; i cuochi, di volta in volta, potevano decidere di aggiungere altri ingredienti (tra i quali compariva spesso, ma non necessariamente, lo zucchero) per migliorare il sapore dell’infuso.
Che, per inciso, non doveva essere un granché. Nel 1618, Bartholomeo Marradòn scriveva che i semi di cacao “hanno un sapore così amaro e così sgradevole che non c’è da stupirsi che, dopo il primo assaggio, la gente provi disgusto per le bevande preparate con esso”: e se teniamo conto del fatto che, per avere effetti benefici sulla salute, il cioccolato liquido doveva necessariamente essere consumato in purezza, così come ordinavano i medici, ci renderemo facilmente conto di come ‘sto intruglio facesse tendenzialmente abbastanza schifo. Diciamo che era l’omologo di un caffè amaro: c’è gente a cui piace, ma stiamo parlando di una roba che non è esattamente paragonabile alla Nutella.
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A questo punto, occorreva capire se la cioccolata liquida spezzasse il digiuno ecclesiastico oppure no.
Era una domanda di un certo peso: nei salotti dell’alta borghesia, la bevanda cominciò a diffondersi solo a partire dal Seicento; ma già nel corso del secolo precedente aveva cominciato a farsi apprezzare nei conventi, che se ne facevano arrivare grandi quantità tutte le volte che un confratello faceva ritorno dalle terre di missione nel Nuovo Mondo. Ed erano proprio i religiosi a fare largo uso di cioccolata nei giorni di digiuno, affascinati dalle rassicurazioni dei medici che ne parlavano come di una bevanda energizzante (e dunque, capace di sostenere in forze anche un individuo a stomaco vuoto). Che volere di meglio dalla vita?!
Ebbene: come è ben noto, la Storia della Chiesa è costellata dalle manifestazioni di un flagello insopprimibile, degno di una piaga biblica: i fedeli laici che si svegliano al mattino pretendendo di saperne più del papa. Uno di questi sfortunati individui era Juan de Cárdenas, un medico spagnolo trasferitosi nelle colonie messicane: sul finire del XVII secolo, lo zelante nutrizionista sentì il bisogno dare alle stampe un trattatello nel quale (fra le altre cose) ci teneva a sottolineare quanto fosse intrinsecamente assurdo il solo pensiero di poter consumare cioccolato nei giorni di digiuno senza commettere peccato grave.
V’erano molti religiosi che ritenevano di poterlo fare a cuor leggero affermando che il cioccolato liquido non spezza il digiuno perché è una bevanda; ma a giudizio del medico rompiscat solerte, il termine “bevanda” veniva comunemente utilizzato nel linguaggio ecclesiale per descrivere due diversi tipi di sostanze:
- i liquidi che vengono consumati al solo scopo di idratare l’organismo togliendo il senso di sete;
- tutte quelle sostanze che possono materialmente essere consumate a sorsi, perché si presentano in forma liquida.
Secondo il dottor de Cárdenas, nella seconda tipologia di bevande venivano spesso, e colpevolmente, fatti rientrare anche degli alimenti veri e propri (paradossalmente, anche una vellutata di verdure un po’ troppo liquida potrebbe essere bevuta a bicchieroni). Ma, poiché lo scopo del digiuno ecclesiastico è quello di mortificare la carne negandogli cibo, è chiaro che un buon cristiano avrebbe dovuto scartare a priori tutte queste tipologie di alimenti in forma liquida, che altro non sono che un vile escamotage per aggirare la penitenza. Ad assicurarlo era un medico, forte della sua indiscussa conoscenza dei meccanismi che regolano il funzionamento del corpo umano!
E quanto ai liquidi dissetanti del punto 1, che non danno nutrimento all’organismo ma si limitano a idratarlo?
Bontà sua, de Cárdenas non riteneva che fosse peccato consumarli nei giorni di digiuno.
Però effettivamente sì, a ripensarci bene forse anche quello era un consumo peccaminoso: se i liquidi vengono assunti con l’unico scopo di idratarsi, a ‘sto punto tanto vale bere unicamente acqua. Perché titillare le proprie papille gustative con qualcosa di diverso e più saporito, in un giorno che dovrebbe essere dedicato alla penitenza e alla mortificazione della carne?
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Chissà se lo zelante dottor de Cárdenas si rendeva conto delle conseguenze a largo raggio delle sue parole. Può anche darsi che il suo unico intento fosse quello di stigmatizzare l’abuso (?) quaresimale dell’odiata cioccolata; all’atto pratico, però, le sue argomentazioni si trasformarono implicitamente in un attacco a tutto tondo al consumo di qualsiasi altra sostanza all’infuori dell’acqua fresca di sorgente. Dar retta alle sue tesi avrebbe voluto dire condannare millecinquecento anni di tradizione cattolica, giacché nessuno mai, nel corso della Storia, aveva ritenuto di dover adottare abitudini quaresimali così draconiane. Vino e birra erano sempre state considerate bevande perfettamente accettabili anche nei giorni di digiuno; e persino i parchi monaci irlandesi, noti per il loro spirito ascetico, erano soliti sostentarsi con grandi bicchieroni di latte corroborante.
Oltretutto, in quell’epoca, il consumo di acqua pura era guardato con comprensibile sospetto, perché capitava spesso che bere acqua non bollita provocasse disturbi più o meno gravi. Era prassi comune stemperare quel liquido con altre sostanze che si credeva potessero renderlo più salubre: la prospettiva di dover affrontare un digiuno ecclesiastico in cui si poteva consumare solo acqua di sorgente ebbe l’effetto di una denotazione anche tra quei fedeli che non erano minimamente interessati a bere cioccolato.
Gli scritti di de Cárdenas (del resto molto persuasivi per il modo in cui il medico argomentava le sue tesi) crearono un tale scalpore che il viceré del Messico si sentì in dovere di chiedere un parere ad Agustín Dávila Padilla, vescovo di Santo Domingo. Il religioso riteneva che non vi fosse nulla di peccaminoso nel consumare nei giorni di digiuno qualche buon bicchiere di cioccolata liquida (o di latte o di bevande alcoliche). Ma, per scrupolo, volle interpellare direttamente la Santa Sede; e furono queste le circostanze che spinsero il papa ad analizzare la conclusione, giungendo infine a una risposta positiva: sì, la cioccolata (e la birra, e il vino, e il latte) rientravano senza dubbio nel novero di quelle bevande che potevano essere consumate senza spezzare il digiuno.
Ma neanche le parole del papa bastarono a tranquillizzare gli animi (!). Le considerazioni del medico messicano avevano evidentemente fatto colpo: nel corso dei decenni immediatamente successivi, voci polemiche continuarono a levarsi qua e là, facendo notare che la scienza considera “cibo” qualsiasi sostanza materialmente capace di fornire un apporto nutritivo alle persone che la consumano. Il fatto che la cioccolata, il latte e la birra abbiano consistenza liquida non basta di per sé a renderli bevande, a giudizio di questi zelanti oppositori: un malcapitato a cui fosse consentito di ingerire solamente acqua finirebbe certamente per morire entro pochi giorni o settimane, ma un individuo che avesse la possibilità di sostentarsi bevendo latte, succhi di frutta, sciroppi zuccherati e calici di birra avrebbe comunque buone chance di sopravvivere per un periodo di tempo un po’ più prolungato. Dunque, queste sostanze sono “alimenti”; dunque, sono un qualcosa da cui astenersi nei giorni di digiuno.
Fu il cardinal Francesco Maria Brancaccio a chiudere una volta per tutte questo dibattito nel 1664, rispondendo all’ennesimo fedele che gli aveva sottoposto queste perplessità. Il cioccolato – argomentò il prelato – è certamente da considerarsi “un alimento” quando viene consumato in forma solida o quando, nella tazza, i semi di cacao vengono mescolati ad altri ingredienti come burro, panna, granella di biscotto. Ma se i semi di cacao vengono lasciati in infusione in un bicchiere d’acqua calda e poi bevuti a mo’ di tisana, il liquido che si ottiene è indubbiamente una bevanda; e, in quanto tale, non spezza il digiuno. E questa precisazione riuscì effettivamente a mettere la parola “fine” a un dibattito che si trascinava ormai da quasi un secolo: l’interpretazione del cardinal Brancaccio, difficilmente contestabile, finì con l’essere accettata un po’ ovunque e nessuno più ebbe modo di fare ironie sul clero lassista che ingurgita dolci, mentre predica la necessità di mortificare la gola e i sensi.
“Nessuno più” fino al momento in cui i social network riportarono in auge la polemica rinascimentale, beninteso. Ma in questo caso gli internauti sono giustificati: ben pochi conoscono la vera storia dietro a questa (solo apparentemente) bizzarra concessione.
Per approfondire: Sophie Coe e Michael Coe, The True History of Chocolate (Thames and Hudson Ltd, 2013)
Elisabetta
Molto interessante!
Lucia, già ci prepariamo alla quaresima saltando il carnevale?
In quaresima ho sempre rinunciato ai dolci quindi il problema personalemente non si è mai posto.
Riguardo al digiuno in sè, l’altro giorno ho pensato al tuo intervento sul digiuno e la dieta liquida nei giorni della passione, quando la Segre prospettava per i giovani una visita ai campi di concentramento in modo raccolto o eventualmente senza aver fatto colazione. Due contesti di digiuno diversi con valenze religiose diverse. Però mi sono ricordata di te e ho pensato : chissà cosa ne pensa Lucia.!
Sono totalmente off topic,me ne rendo conto.
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Gabriele
Leggendo questo interessante articolo mi ha colpito leggere il passo in cui scrivi che il latte potesse essere uno dei liquidi ammessi nei giorni di digiuno. Ho sempre letto che, secondo le regole “classiche” (poi sappiamo bene che c’erano svariati indulti più o meno ovunque, come la celebre Torre del burro sta a testimoniare), nei giorni di digiuno – come in quelli di astinenza – i derivati animali sono proibiti, e tra questi si è naturalmente incluso anche il latte.
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Celia
Mi sa che sono abbastanza in linea con de Cardenas XD
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