La Befana che ritorna e san Francesco che trionfa: storia delle festività soppresse (e riabilitate) in Italia

Curiosi scherzi, quelli che ogni tanto fa la Storia: se volessimo cercare di risalire al legislatore che per primo introdusse “in Italia” la consuetudine di dare effetti civili alle feste religiose più importanti del calendario, ci troveremmo di fronte a un ben strano personaggio. Per la precisione, ci troveremmo di fronte a un antipapa.
Tecnicamente, fu Amedeo VIII di Savoia (poi divenuto antipapa col nome di Felice V) a emanare nel 1430 un editto che stabiliva pene e sanzioni per chi fosse stato scoperto al lavoro nei giorni che la Chiesa cattolica considerava festivi. E, poiché l’ordinamento giuridico dell’Italia unificata fu in gran parte erede di quel corpus di leggi che da secoli si trasmetteva in seno ai domini dei Savoia… beh, sì: tecnicamente, qualcuno potrebbe anche dire che fu un antipapa ad avere l’idea primigenia.

1430 – 1850: se non festeggi, ti multo

L’editto di Amedeo VIII non si limitava a stabilire che i sudditi del ducato di Savoia avevano il diritto di astenersi dal lavoro in occasione delle feste religiose più importanti: diceva che ne avevano anche il dovere, stabilendo sanzioni per chi fosse stato scoperto al lavoro in un giorno di festa. E – ammettiamolo – non è che la cosa facesse un granché piacere, in un’epoca storica in cui, se non lavoravi, semplicemente non prendevi lo stipendio.
Trovano addentellato in questo paradosso (l’obbligo di festeggiare anche quando non vorresti) i numerosissimi aneddoti di cui è infarcita l’agiografia e che narrano di miracoli punitivi che si realizzano a danno di quei bifolchi che pretendono di lavorare anche nei giorni di riposo. E trovano addentellato in questo paradosso anche le garbate riflessioni che, con sempre maggior frequenza, a partire dal XVIII secolo vennero avanzate sul tema. All’incirca sulle linee di “oh, regà. Ma è proprio il caso?”.

Nel Regno di Sardegna, un primo passo fu compiuto nel 1836, quando un regio editto stabilì che determinati uffici pubblici dovessero restare operativi tutti i giorni dell’anno, osservando chiusura festiva solamente in occasione di sei ricorrenze religiose che il legislatore riteneva di particolare importanza: Natale, Ascensione, Corpus Domini, Natività di Maria, SS. Pietro e Paolo e Ognissanti. (Restava ovviamente in vigore la consueta chiusura settimanale ogni domenica, che preservava altre feste non citate in elenco, come la Pasqua).
Era un editto che riguardava solo gli uffici pubblici (e neanche tutti), e dunque non impattava sul settore privato: i comuni mortali restavano soggetti a un regolamento firmato da Vittorio Emanuele I che prevedeva un totale di diciassette giorni festivi infrasettimanali. Ma era pur sempre un precedente, e anche prezioso: e fu proprio facendo leva su questo regio editto che, nel 1850, il governo D’Azeglio riprese in mano una questione che stava ormai diventando urgente.

1850: quando i padri della patria riformarono il calendario

La questione fu affrontata di petto da Giuseppe Siccardi, firmatario di quelle famose leggi che tanto avrebbero creato scalpore sancendo in maniera assai brusca la separazione tra Stato e Chiesa. Nel 1850, quando era appunto in lavorazione il corpus di provvedimenti che avrebbe dato origine alle leggi Siccardi, anche il tema dei giorni festivi divenne oggetto di un intenso dibattito parlamentare: il deputato Josti fece notare quanto odioso risultasse questo obbligo di festa alle minoranze religiose di fede non cattolica (e in effetti non mentiva: i valdesi, in particolare, lo consideravano un grosso sgarbo) e il deputato Jacquemoud presentò una stima secondo cui, a causa di quei diciassette giorni rossi sul calendario, gli Stati Sardi perdevano ogni anno qualcosa come 50 milioni di lire. Ma altre figure di spicco erano decisamente più moderate: Cavour fece notare ai colleghi che, sì, c’erano cittadini che storcevano il naso di fronte al riposo imposto, ma ce n’erano invece altri che erano molto felici di stare a casa dal lavoro, grazie tante (e, in ogni caso, lo Statuto Albertino riconosceva il cattolicesimo come religione di Stato). Garantire ai cittadini di potersi astenere dal lavoro in occasione delle festività religiose più importanti gli pareva «assolutamente consono a leggi economiche e sociali» – e forse era proprio la tenuta della società a preoccuparlo più di ogni altra cosa.

Si addivenne alla conclusione per cui le feste religiose andassero mantenute nel calendario civile, possibilmente in numero ridotto rispetto alla cifra elevatissima che era in quel momento in vigore. Jacquemoud propose di prendere ispirazione dalla Francia, che riconosceva come festive solo le date di Natale, Assunzione, Corpus Domini e Ognissanti. La maggioranza propose di ridurre i giorni festivi a sei, sulla base di quelli indicati dal famoso editto del 1836 che regolamentava le aperture degli uffici pubblici. In ogni caso, per il solo fatto d’aver aperto quel dibattito, Siccardi aveva già consumato la sua vittoria, quella cioè di portare l’attenzione pubblica a riflettere su un tema non da poco: chi – tra Stato e Chiesa – ha il potere di plasmare il calendario nazionale?

1853: quando Pio IX e Siccardi si sedettero a tavolino (e andarono pure un gran d’accordo)

Naturalmente, solo la Chiesa può indicare ai suoi fedeli quali siano le feste religiose di precetto (quelle in cui cioè è obbligatorio andare a messa). Ma, naturalmente, solo lo Stato può decidere se dar lor efficacia civile.
In maniera altrettanto ovvia, se la stragrande maggioranza della popolazione pratica attivamente una religione che, in determinati giorni dell’anno, ordina ai suoi fedeli di compiere attività inderogabili che non necessariamente si conciliano con gli orari di lavoro, ogni legislatore con un minimo di cervello si renderà conto del fatto che bisogna trovare un qualche modo per mediare: si può presumere che l’elettorato non gradirebbe un provvedimento che tutto d’un tratto lo costringesse a violare i precetti della sua religione nel nome dell’economia e della produttività.

In questo caso specifico, pareva evidente che il modo più efficace per conciliare le due istanze fosse quello di sedersi al tavolino con la Chiesa e cercare di ragionare come si fa tra persone civili: e infatti, nel 1851, il Regno di Sardegna indirizzò alla Santa Sede una lettera rispettosissima in cui esponeva la necessità di ridurre il numero delle feste civili sul calendario, per piacere, se è possibile. «Trattandosi di cosa che, a parte l’applicazione dei regolamenti civili per l’osservanza delle feste, è di assoluta ed esclusiva competenza del Sommo Pontefice», scriveva timidamente il primo ministro, «il Governo del Re si limita a chiamare sopra questi argomenti l’attenzione del S. Padre», sperando d’ottenere dal papa quella stessa considerazione benevola «con cui soleva una volta accogliere le domande di uno Stato, che a nessuno fu mai secondo nell’attestare al capo della S. Romana Chiesa la sua filiale devozione».

Un ossequio maggiore di questo sarebbe difficile immaginarlo senza trasformarsi in zerbini, e la tecnica funzionò bene: nel settembre 1853, papa Pio IX emanava un breve pontificio che, in deroga a quanto ufficialmente prescritto, riduceva a sei (più domeniche) per i fedeli che risiedevano in una diocesi sita negli Stati Sardi, il numero di feste in cui era obbligatorio presentarsi in chiesa per la messa. Senza perdere tempo, il 6 ottobre dello stesso anno il governo legiferava per ridurre a sei le feste religiose con effetti civili sul calendario: un win-win frutto di una collaborazione impeccabile, da cui ambo le parti erano uscite vittoriose. Difficile pensare che, di lì a poco, il conflitto tra Stato e Chiesa sarebbe esploso in tutta la sua forza.

1911: meno feste per tutti, lo dice il papa! (Ma l’Italia lo prende fin troppo alla lettera)

Il breve di Pio IX era stato un bell’esempio di collaborazione tra Stato e Chiesa, ma non era stato un evento eccezionale. La verità è che, in quegli anni, provvedimenti di questo tipo venivano firmati costantemente dalla Santa Sede, per concedere deroghe a obblighi di precetto che, ormai, erano divenuti francamente incompatibili con il normale viver civile del mondo moderno. A voler essere pignoli, senza contare appunto le deroghe locali che erano state via via concesse, la Chiesa cattolica riconosceva un totale di trentasei (!) festività infrasettimanali in cui, in teoria, la brava gente avrebbe dovuto andare a messa per non commettere peccato mortale.

Quali erano? Ecco l’elenco, per i più curiosi: Natale e Santo Stefano, Santi Innocenti (28 dicembre), Circoncisione di Gesù (1º gennaio), Epifania, Candelora (2 febbraio), San Giuseppe (19 marzo), Annunciazione (25 marzo), Pasqua (e due giorni a seguire), Ascensione, Pentecoste (e due giorni a seguire), Corpus Domini, Invenzione della Santa Croce (3 maggio), Natività di San Giovanni Battista (24 giugno), Sant’Anna (26 luglio) Assunzione (15 agosto), Natività della Beata Vergine (8 settembre), San Michele (29 settembre), Ognissanti (1° novembre), Immacolata Concezione, San Silvestro. A queste si aggiungevano poi tutte le feste degli apostoli: Pietro e Paolo (29 giugno), Andrea (30 novembre), Giovanni Evangelista (27 dicembre), Giacomo (25 luglio), Tommaso (21 dicembre), Filippo e Giacomo (1º maggio), Bartolomeo (24 agosto), Matteo (21 settembre), Simone e Giuda (28 ottobre), Mattia (il 24 febbraio). Un numero veramente spropositato, che oggettivamente sembrava relitto di un passato ormai non più replicabile.

E infatti, papa Pio X decise che i tempi erano maturi per affrontare una volta per tutte la questione: nel 1911, firmando il motu proprio Supremi disciplinae, il pontefice si rivolgeva alla cattolicità intera nel ridurre a otto il numero delle feste di precetto (Natale, Circoncisione di Gesù, Epifania, Ascensione, festa dei SS. Pietro e Paolo, Assunzione, Ognissanti, Immacolata Concezione).

Tra le altre cose, il provvedimento papale aveva eliminato l’obbligo di precetto in occasione delle feste del Corpus Domini e della Natività di Maria, per le quali invece l’Italia aveva previsto a suo tempo l’astensione dal lavoro, data la necessità dei cittadini di andare a messa. Il governo ne approfittò, cogliendo la palla al balzo per ridurre ulteriormente il numero di giorni festivi sul calendario. L’intento dichiarato era quello di uniformare il calendario civile alla riforma che la Chiesa aveva appena attuato spontaneamente; all’atto pratico, la legge che fu approvata nel 1913 abolì anche gli effetti civili delle festività dei SS. Pietro e Paolo e dell’Immacolata Concezione, che invece la Chiesa considerava (eccome!) di precetto.

La cosa creò un bel po’ di maretta in diplomazia (e un bel po’ di caos nel viver quotidiano della brava gente): col senno di poi, il provvedimento servì a Mussolini su un piatto d’argento l’occasione perfetta per presentarsi come il salvatore della patria che avrebbe risolto, tra gli altri, anche questo problema.

Il Concordato del 1929: tra le feste religiose e le feste del buon fascista

Già nel 1923 il governo Mussolini s’era affrettato a ripristinare gli effetti civili delle due festività incriminate, facendo in effetti (ahinoi) un gran favore agli Italiani, che negli ultimi dieci anni non avevano smesso per un solo attimo di lamentarsi della cosa. Ma il vero punto di svolta arrivò ovviamente con il concordato del 1929, in base al quale lo Stato si impegnava a riconoscere gli effetti civili di tutti quei giorni che la Chiesa avesse considerato feste di precetto (ovverosia, sempre gli otto che abbiamo già elencato prima).

A questi si aggiungevano quei giorni che, sul calendario civile, avevano cominciato a colorarsi di rosso per commemorare ricorrenze laiche che avevano però rilevanza nazionale. In ossequio alla Chiesa, il fascismo abolì l’antipatica festa del 20 settembre (anniversario della breccia di Porta Pia), ed eliminò pure una festa dello Statuto che era stata introdotta nel 1861 ma non era mai riuscita ad affermarsi davvero. Conservò invece la festa del 4 novembre (anniversario dell’armistizio che pose fine alla prima guerra mondiale) e aggiunse altre feste tutte sue: 28 ottobre (anniversario della marcia su Roma), 21 aprile (natale di Roma), 11 febbraio (anniversario della firma dei Patti Lateranensi) e, successivamente, 9 maggio (fondazione dell’Impero).

1949: vacanza a gogò per tutti! Il boom dei giorni rossi sul calendario

Caduta la dittatura, il calendario civile fu rapidamente preso in mano per cancellare con un tocco di penna tutte quelle ricorrenze fasciste volute da Mussolini. Nel 1946 fu rattamente istituita la festa del 25 aprile, e nel 1949 il parlamento curò una riforma del calendario che, tra le altre cose, istituì il concetto di solennità civile (giorni in cui gli uffici pubblici erano aperti con orario ridotto e la cittadinanza era invitata a onorare la data importante… ma in cui, comunque, si continuava a lavorare e ad andare a scuola. All’epoca, le solennità civili erano l’11 febbraio, anniversario della firma dei patti lateranensi, e il 28 settembre, anniversario dell’insurrezione di Napoli del 1943. Il 4 ottobre, come festa ‘patronale’ della nazione, fu aggiunto a questo elenco nel 1958).

Ciò fatto, il governo decise di festeggiare il suo prospero avvenire concedendo agli Italiani un gran numero di giorni in cui stare a casa dal lavoro. In ossequio alla religione dominante, venivano riconosciuti come giorni rossi sul calendario tutte le domeniche e le date corrispondenti alle feste di Circoncisione, Epifania, San Giuseppe, Ascensione, SS. Pietro e Paolo, Assunzione, Ognissanti, Immacolata, Natale. Per venire incontro a consuetudini sociali molto radicate sul territorio, erano inoltre considerati festivi anche i giorni di Santo Stefano, di ‘Pasquetta’ e del Corpus Domini (fondamentalmente perché alla gente piaceva festeggiarli, o perché – nel caso della festa estiva – le manifestazioni tradizionali come l’infiorata erano un volano per il turismo). Inoltre, per rinsaldare lo spirito nazionale, si stabiliva che i cittadini rimanessero a casa dal lavoro il 25 aprile, il 1° maggio, il 2 giugno e 4 novembre.

Il risultato era un calendario ricchissimo; assurdamente ricco, direbbe qualcheduno, tenendo conto che l’Italia del boom si fermava in sedici date infrasettimanali e in tutte le domeniche dell’anno. Di fatto, si era ritornati allo status quo contro cui avevano lottato Cavour e Siccardi esattamente novantanove anni prima, ritenendolo inadatto al normale vivere di uno Stato moderno.

1977: la riforma del calendario e le festività soppresse

Comprensibilmente, alcuni cominciarono a chiedersi se l’Italia non fosse un po’ troppo festaiola – o se una nazione così poco incline al lavoro fosse degna di sedere al fianco di potenze industriali come Germania e Stati Uniti. Anche perché, se il boom economico del dopoguerra aveva permesso di scialare con le chiusure senza farsi troppi problemi, la rivoluzione dei costumi del ’68 e la crisi petrolifera del ’73 crearono serio imbarazzo a un legislatore che non sapeva più come giustificare un così alto numero di giorni di riposo in una nazione che di tutto aveva bisogno, fuorché di far festa.

Il dibattito sull’opportunità di una riforma del calendario andò avanti per un po’. C’era chi premeva per una netta riduzione dei festivi e c’era chi sottolineava che, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno, quella moltitudine di “ponti” favoriva il commercio locale e il turismo interno. C’era anche chi temeva che la Chiesa cattolica avrebbe reagito male a una riforma, optando per il far leva sul concordato mussoliniano (in quel momento ancora in vigore; e che, in effetti, la tutelava molto in tal senso).

Ma, di fronte alla crisi energetica e alla stagnazione, il governo Andreotti decise che fosse arrivato il momento di dare un segnale forte – e il 5 marzo 1977 approvò una legge che riduceva drasticamente le festività riconosciute dallo Stato. A cadere sotto i colpi di mannaia furono alcune feste amatissime che avevano sempre avuto un ruolo di enorme rilievo nella cultura, nel folklore, nelle tradizioni italiane: Epifania, San Giuseppe, Ascensione, festa dei SS. Pietro e Paolo, Corpus Domini. Per buon conto, sparirono anche due feste civili piuttosto amate: 2 giugno e 4 novembre.

La Chiesa, in realtà, non la prese a male; anzi, ebbe voce in capitolo su quale fossero a suo giudizio le feste religiose più facilmente sacrificabili. Inizialmente, i parlamentari avrebbero voluto abolire gli effetti civili della festa dell’Immacolata Concezione, che in Italia non portava con sé particolari manifestazioni di folklore al di là della consuetudine di preparare il presepe e addobbare l’albero; ma la Chiesa si oppose con forza, e l’Osservatore Romano scese in campo con un articolo di fuoco in difesa della festa di Ognissanti e delle mille tradizioni legate al 1° novembre dal Nord al Sud dello stivale.

La Conferenza Episcopale Italiana chiese e ottenne dalla Santa Sede una deroga che permettesse di osservare in altra data quelle feste di precetto che venivano celebrate in giorni ormai divenuti lavorativi, e in cui la gente avrebbe dunque avuto difficoltà nell’andare a messa. Sicché, la festa dell’Epifania cominciò a essere celebrata nella domenica tra il 2 e l’8 gennaio e l’Ascensione prese a essere festeggiata nella settima domenica dopo Pasqua (come, in effetti, è ancora oggi).

1985 – 2025: qualche festa che ritorna (più una solennità civile che fa l’upgrade)

Nel 1984, la revisione del concordato tra Stato e Chiesa non cambiò un granché, quanto ai giorni rossi del calendario. Più che altro, fu una legge del 1985 a ristabilire gli effetti civili della festa dell’Epifania, la cui abolizione non era proprio andata giù ai cittadini (specie se venditori di dolci e di giocattoli); con grande scorno degli amministratori locali, non si ritenne di dover tutelare la festa dell’Ascensione, che pure portava con sé un enorme bagaglio di tradizioni folkloristiche che, ahinoi, sono ormai perse quasi del tutto. Piuttosto, si scelse nel 2000 di rendere nuovamente festiva la data, tutta civile, del 2 giugno, nella speranza di rafforzare l’identità nazionale e il senso di appartenenza in un Paese che non sembrava (e non sembra) in grado di festeggiare il 25 aprile con quello spirito di coesione che sarebbe stato auspicato dal legislatore.

E poi, naturalmente, arriviamo al giorno d’oggi, con la prospettiva di guadagnare un giorno festivo in più in occasione della festa di san Francesco. Quella di cui si sta discutendo in questi giorni era una solennità civile che era stata istituita nel 1958, in onore di san Francesco e santa Caterina co-patroni d’Italia (ma, all’atto pratico, il giorno era accompagnato anche da epiteti come ‘giorno della pace’). Non era mai stato un giorno festivo nel pieno senso del termine (in base ai testi che ho consultato, non mi risulta che gli adulti stessero a casa dal lavoro, correggetemi se sbaglio), né tantomeno una festa di precetto per la Chiesa.

E, per inciso, sarò molto curiosa di vedere in che modo si svilupperà, questa strana festa che – nei fatti – è più invenzione moderna che recupero (e più invenzione civile che recupero religioso, a dispetto della natura del festeggiato). Ma questa è un’altra Storia, ed è una Storia tutta da scrivere: sarà divertente, tra qualche anno, tornare qui a parlarne, col senno del poi.


Per approfondire:

Maria Rosaria Piccinni, Il tempo della festa tra religione e diritto (Cacucci, 2013)
Franco Cardini, I giorni del sacro. I riti e le feste del calendario dall’antichità a oggi (UTET, 2016)

6 risposte a "La Befana che ritorna e san Francesco che trionfa: storia delle festività soppresse (e riabilitate) in Italia"

  1. Avatar di oggiesempre

    oggiesempre

    Il Signore ci dia pace.

    In merito alla festa di san Francesco, mi ricordo che da piccola (scuola materna, elementare e medie) stavo a casa da scuola: le scuole iniziavano il primo ottobre e il 4 era già vacanza! Una vera gioia…

    Grazie di cuore per questo interessante articolo.

    Buona festa di san Francesco!

    nadiamaria, sorella povera

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    1. Avatar di Lucia Graziano

      Lucia Graziano

      Ah, quindi si stava a casa da scuola!

      Grazie mille: i libri che ho consultato io la definivano “solennità civile” (che in teoria prevedeva orario di lavoro ridotto, ma non festa totale), ma non approfondiscono più di tanto, a onor del vero. Si concentrano più che altro sui famosi quattro giorni di “festività soppresse” che sono San Giuseppe, Ascensione, Corpus Domini e SS. Pietro e Paolo, ma sul 4 ottobre non si soffermano. Giustamente non era una data sotto l’occhio dei riflettori fino a qualche mese fa.

      Quindi ok, il 4 ottobre si stava effettivamente a casa da scuola. Grazie!

      Adesso devo capire: la disciplina delle solennità civili prevedeva scuole chiuse ma uffici aperti nel privato, oppure c’era proprio stato un trattamento a parte riguardo la data del 4 ottobre? 🤔

      E buona festa di san Francesco anche a te (e sorelle!), un po’ in anticipo… 🙂

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      1. Avatar di oggiesempre

        oggiesempre

        Il Signore ci dia pace, carissima Lucia. Ricambio con gioia gli auguri per la festa di san Francesco. A proposito di feste civili, per noi bambine e bambini, c’era l’incubo del 4 novembre, in cui si stava a casa da scuola, ma si doveva partecipare al corteo per deporre la corona d’alloro al monumento dei caduti e qui c’era il discorso del sindaco e di altre autorità…  In ogni caso siamo diventati grandi! E siamo qui a raccontarlo. Con gratitudine e pace, nadiamaria, sorella povera 

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  2. Avatar di Sconosciuto

    Anonimo

    tremendo non festeggiare l’ epifania!

    ma per le feste di precetto che non avevano o hanno valore anche civile non sarebbe possibile celebrare le messe verso sera in modo da poter lavorare E andare a messa?

    io sono molto felice di questa “nuova” festa il giorno di San Francesco, credo che ce ne sia un grande bisogno.

    elena

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