Quando Lucifero cadde su un cespuglio di more (e se la legò al dito)

“Rompere uno specchio porta sette anni di sventura”.
Ovviamente non è vero, ma è pur sempre utile farlo credere a quegli scalmanati dei tuoi figli che giocano a pallone in casa. Visto il costo che aveva un tempo una specchiera, se non erano “di sventura” erano sicuramente “di risparmi” i sette anni che sarebbero occorsi per compensare al danno provocato.

“Camminare sotto a una scala porta jella!”.
Beh, ha buone chance di farlo per davvero. Calcolando che, in genere, sopra alla scala c’è qualcuno che sta lavorando in condizioni di equilibrio precario, potrebbe effettivamente essere una buona idea fare il giro largo. Là dove il buonsenso è deficitario, una superstizione ad hoc può essere funzionale a ottenere per vie traverse il comportamento desiderato.

Keith Thomas, che ha analizzato questi aspetti nel suo Religion and the Decline of Magic, fa notare che, sotto sotto, quasi tutte le superstizioni hanno una finzione pratica.
I fantasmi molesti che tornano dalla morte? Ingenuamente, un modo per ricordare l’importanza della pietà per i defunti.
Le dicerie sul fatto che le donne incinte non possono assolutamente fare questo e quello? Goffamente, un modo per far capire che le poverine gradirebbero molto potersi riposare, delegando certe incombenze ad altri membri della famiglia.

A loro modo, un po’ tutte le superstizioni sono funzionali a trasmettere insegnamenti non privi di buonsenso. Approcciando la cosa da questo punto di vista, diventa chiara anche la logica che è sottesa alla curiosa usanza che sto per raccontare oggi: le more possono essere mangiate solo dalla festa di san Michele arcangelo alla festa di san Michele arcangelo. Chiunque dovesse mangiare more al di fuori di quel periodo andrebbe incontro alla malasorte, assicurano gli Inglesi.

***

Innanzi tutto: cosa diamine vuol dire, “dalla festa di san Michele arcangelo alla festa di san Michele arcangelo?”.
Vuol dire dall’8 maggio al 29 settembre, le due date in cui il calendario liturgico ricorda il principe delle milizie celesti: la ricorrenza primaverile segnava l’anniversario della sua apparizione sul Gargano; la festa di inizio autunno era la solennità che la Chiesa cattolica riservava all’arcangelo.
In soldoni, la tradizione popolare ci dice che le more possono essere consumate solamente da inizio maggio a fine settembre.

E qui mi verrebbe anche da aggiungere: e grazie al cavolo; quando diamine vorresti mangiarle, se non in quel periodo? Ammesso e non concesso di riuscire a trovarne qualcuna in una stagione diversa da quella suggerita, resta il fatto che non sarebbe comunque il momento giusto per mangiarle. Sarebbero di certo troppo acerbe (o, alternativamente, così mature da sfiorare la marcescenza): probabilmente, un piatto di more fuori stagione non porterebbe la malasorte… ma avrebbe di certo buone chance di causare il mal di pancia.

La tradizione, nata probabilmente verso la fine del XVII secolo, godette di grande diffusione nelle isole britanniche per tutto il corso dell’Otto- e del Novecento (e in realtà pare essere piuttosto nota ancora oggi). Tradizionalmente, nella festa di san Michele (ultimo “giorno utile” per mangiar le more senza incorrere nella sventura) le massaie preparavano mille prelibatezze a partire da quel dolce frutto di bosco. Fra le tante, una delle ricette più caratteristiche era quella della Michaelmas Pie: e se ormai conoscete un po’ gli interessi miei e di Michela, la foodblogger che si firma come Mani di pasta frolla, non vi stupirà scoprire che è proprio a questa ricetta che è stata dedicata la puntata settembrina della nostra collaborazione. Correte sul suo blog per scoprire la ricetta della crostata michaelica… ma non correte troppo forte! Qui devo ancora aggiungere un dettaglio.

Ovverosia: cosa c’entrano le more con san Michele?
Vale a dire: al di là delle considerazioni di buonsenso per cui non è il caso di impuntarsi a mangiar more sotto Natale, la tradizione popolare riusciva a dare una spiegazione al diktat per cui niente più more dopo la festa dell’arcangelo?

In effetti sì, la tradizione ci riusciva, facendo risalire le ragioni del divieto alla lotta ultraterrena che aveva visto san Michele mettersi al comando delle milizie celesti nella guerra contro Lucifero.

Scriveva nell’Ottocento il preposito Campari (parroco lombardo che, ovunque sia, oggi stralunerà allo scoprire di esser stato citato sul blog dell’archivista che anni fa ha avuto la gioia di ordinarne le omelie e se ne è anche trascritta i pezzi migliori): “se io non sapessi che questa fu battaglia di semplici spiriti, e, soprattutto, se sapessi come si raccolgono e si mettono in ordinanza gli eserciti; se conoscessi gli uffici e le incombenze dei generali; se noto mi fosse come si schierino i guerrieri, si dispongano le fila, si scelgano i luoghi e le posizioni più vantaggiose per la battaglia; se conoscessi l’arte con cui si fa avanzare e fermare e poi retrocedere quella schiera e questa, e con quale criterio convenga ora aspettar cautamente il nemico, ora al contrario cercarlo ed affrontarlo: […] se tutto ciò io non ignorassi, potrei ora rappresentare nella vostra immaginazione” gli schieramenti che si preparano alla battaglia e i due comandanti che si fissano, occhi negli occhi, prima di ordinar la carica. “Da un lato l’esercito fedele a Dio, e dall’altro il rivoltoso. Qui, eletti battaglioni di celesti milizie guidate da Michele; e qui, un molteplice, informe aggruppamento d’angeli sediziosi e ribelli, con Lucifero alla testa. E non so se a voi parrebbe allor di vedere, come nei combattimenti di quaggiù, alzarsi nembi di polvere, e scintillar fulgide spade, e sentire il cozzo e l’urto dei carri, il nitrito e il calpestìo dei cavalli […]. Se non fosse stata questa, certo, una battaglia di puri spiriti”.

E infine vinse, l’esercito celeste: e “Lucifero, coi compagni dell’empia congiura, fu precipitato dal più alto dell’empireo. Quelli che erano come tante stelle del firmamento, si cambiarono tosto in altrettanti tizzoni d’inferno”.
I quali finirono col cadere in terra proprio sopra a un cespuglio di more, ebbene sì; o almeno: così assicurano la tradizione e il folklore inglese.

Già non è piacevole perdere la guerra; ma perderla andando a cadere su un rovo aggiunge un ulteriore tocco di spiacevolezza alla questione. Le spine si conficcarono nel corpo nello spirito di Lucifero, le more spiaccicate inzaccherarono il terreno: un bruschissimo risveglio, e tra i più umilianti, per l’angelo che aveva sognato di poter vincere e invece aveva imparato a sue spese la veridicità eterna di quel “non prevalebunt“.

Dice il folklore inglese che Lucifero la prese molto sul personale, questa cosa delle more: ai suoi occhi, quei frutti divennero rapidamente il simbolo e il memento della sua sconfitta. Ed è per questo che (assicurano gli Inglesi) ogni anno, nella festa di san Michele arcangelo, quando le campane suonano a festa per ricordare la vittoria del suo nemico, Lucifero viene preso dalla rabbia e per vendetta se la prende con le more. Ci sputa sopra, ci urina, le maledice addirittura per avvelenarle! Molte sono le versioni della storia, che ruota comunque attorno a un punto fermo: la crisi isterica del diavolo che si vede ricordare la sua sconfitta, mentre la comunità cristiana si stringe in festa attorno a quell’arcangelo che è principe guerriero, vittorioso comandante delle trionfanti milizie angeliche.

9 risposte a "Quando Lucifero cadde su un cespuglio di more (e se la legò al dito)"

  1. Anonimo

    Io sono caduta PER DAVVERO su un cespuglio di more, ed ero, ahimè!, in costume da bagno.
    Non vi dico i guai che ho passato per togliermi tutte le spine dal fondoschiena.
    Annalisa.

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  2. Pingback: Dieci tradizioni per il “Capodanno d’autunno”: la festa di san Michele – Una penna spuntata

  3. Paolino

    Fa il paio con la storia che Giuda si sarebbe impiccato su un albero di fragole e queste da allora crescono al suolo per la vergogna. 😆
    Mi hanno detto che l’origine di questa storia dovrebbe essere francese, è vero?

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