Di come il secolo delle Rivoluzioni rivoluzionò anche il nostro modo di vivere le feste. Alla scoperta del Natale del Settecento

Spesso, è a Dickens che viene dato il merito di aver inventato il Natale come lo conosciamo oggi. E se il travolgente successo di A Christmas Carol contribuì senza dubbio a rendere popolare il Natale vittoriano dei buoni sentimenti, fu in realtà nel XVII secolo che la festa del 25 dicembre cominciò ad assumere i connotati che le attribuiamo oggi. Fu un cambiamento lento e graduale, che inizialmente riguardò piccole abitudini domestiche, all’apparenza di poco conto.
Ma tutte le grandi rivoluzioni iniziano in sordina… e in fin dei conti, le feste di Natale non sono tutte un susseguirsi di piccole abitudini domestiche di poco conto?

In una rapida carrellata delle più grande innovazioni del Natale settecentesco, ecco quelle che includerei certamente nella top five:

1. Un Natale a misura di famiglia

Nel Medioevo, il Natale era essenzialmente una festa comunitaria: si scendeva in piazza per danzare tutti assieme, si assisteva ai drammi sacri sul sagrato della chiesa, si gioiva attorno agli alberelli che venivano decorati in luogo pubblico. Come mai, a un certo punto, la gente avvertì il bisogno di trasformare il Natale in una festa di famiglia, da celebrare con pochi intimi nel chiuso delle proprie case?

È un mistero a cui si fatica a dar risposta; a determinare questo cambiamento fu, probabilmente, una serie di concause.

Innanzi tutto: a un certo punto, i ricchi si scocciarono di essere scambiati per Babbo Natale. Vale a dire: nella prima età moderna, era socialmente atteso che le persone benestanti fossero pronte a distribuire omaggi, cibo e regalie a chiunque avesse bussato alla loro porta nel giorno di Natale (magari ottenendo in cambio una canzoncina o una preghiera di benedizione). Si trattava di una moda onerosa ma soprattutto snervante, che finiva col trasformare i palazzi signorili in una stazione di posta per mendicanti che si sentivano autorizzati a chiedere, in base al principio di buon vicinato. È storicamente documentato che, nel corso del Settecento, un crescente numero di aristocratici prese l’abitudine di festeggiare nella casa di villeggiatura, proprio per sfuggire a quell’opprimente tran tran tipico del Natale di città.

Ma non erano solamente i ricchi ad aver mutato abitudini. Anzi: il cambiamento più marcato riguardò proprio il ceto medio-basso, che nel corso del Settecento (complice l’urbanizzazione e le crescenti possibilità di lavoro offerte dalle industrie cittadine) si trovò spesso a vivere in luoghi molto lontani dal paese natio in cui era cresciuto. I vicini di casa, ormai, erano degli sconosciuti con cui scambiare tutt’al più un “buongiorno” e un “buonasera”: ben di rado esiste spirito comunitario nelle città, là dove il punto di riferimento diventano invece la famiglia ristretta, gli amici più cari, i parenti che non abitano troppo lontano. Festeggiare in compagnia della propria comunità d’appartenenza non interessava più a nessuno… anche perché, a conti fatti, non esisteva più una comunità di appartenenza.

2. Gli scambi di regali tra pari

Fino ad allora, non erano frequenti.
I genitori, quando potevano, facevano doni ai loro figli; sul luogo di lavoro, generosi regali di Natale erogati ai dipendenti sostituivano la nostra moderna tredicesima. I commercianti non perdevano l’occasione di ringraziare con piccoli omaggi i clienti più fidati, e spesso i sottoposti ricorrevano a doni simbolici per sdebitarsi con chi pagava loro lo stipendio.

Quello che non era né frequente né normale era lo scambio di doni tra parigrado. I mariti non facevano regali alle mogli, i genitori non avevano pensierini per i figli adulti. Ricevere un dono da un amico, poi, sarebbe stato una bizzaria ai limiti dell’offensivo (con un messaggio sottinteso sulle linee di “ti faccio un po’ d’elemosina perché sei visibilmente più povero di me”).

Nel secolo dell’égalité e della fraternité, le cose cominciarono a cambiare. Pare che i primi a imprimere un cambiamento di rotta siano stati i commercianti, che nella seconda metà del secolo cominciarono ad avvisare preventivamente circa il fatto che nessun dono di Natale sarebbe stato distribuito ai loro clienti (patti chiari, amicizia lunga). Tra i datori di lavoro, cominciò lentamente a farsi strada la consapevolezza che forse forse i dipendenti avrebbero volentieri rinunciato al loro cesto dono a favore di un aumento in busta paga, e grazie tante. Ai sottoposti, cominciò improvvisamente a sembrare umiliante il servilismo con cui, fino a quel momento, si erano scervellati per fare regali simbolici ai datori di lavoro, in virtù di una gratitudine che non pareva più ben motivata.

Insomma: sparita la consuetudine di fare regali basati sulle gerarchie sociali, nacque la moderna usanza di fare regali ai propri cari.
In Francia, i libri erano il dono più gettonato per quella crescente fetta di popolazione che era alfabetizzata. In Inghilterra, piccoli gioielli e cibi di un certo pregio erano i regali prediletti dai benestanti. In Olanda, andava di moda regalare agli amici le sanctjes, quadretti riccamente decorati con immagini di san Nicola.

3. San Nicola come lo conosciamo oggi

Ecco, appunto: parliamo del vescovo di Myra. Certamente, il santo era molto amato fin da epoche remote, ma nel Settecento andò incontro a un massiccio restyling proprio nel Settecento. Quando noi diciamo che il personaggio di Babbo Natale deriva dalla figura del vescovo Nicola diciamo indubbiamente il vero… ma saremmo ancor più precisi se specificassimo che questa derivazione avviene attraverso una fase intermedia. Babbo Natale è il discendente diretto di Sinterklaas, cioè il san Nicola già parzialmente scristianizzato che caratterizzava il folklore dei Paesi Bassi.

In quelle terre, il personaggio era diventato popolare durante l’occupazione spagnola, durata dal 1581 al 1714. Ma, in quel periodo, i Paesi Bassi erano già una regione a maggioranza protestante: il Nicola che passeggiava per le vie di Amsterdam conservava sì il nome del vescovo cristiano, ma stava già cominciando a perdere i suoi atteggiamenti più ieratici trasformandosi in un bonario e benevolo vecchietto, più simile a un folletto che a un santo cristiano.

Inoltre, fu proprio nei Paesi Bassi che san Nicola prese alcune delle sue abitudini più celebri. Appartenevano ai bimbi olandesi, i primi zoccoli di legno che nottetempo furono colmati di dolcetti (nelle altre zone d’Europa, san Nicola distribuiva personalmente i regali ai bambini, grazie alla collaborazione di volenterosi figuranti). Ma non solo: se, fino ad allora, era tradizione che san Nicola donasse mele e noci ai bambini buoni, il suo viaggio nei Paesi Bassi lo spinse a optare per un’altra tipologia di dono: gli agrumi, ancor oggi onnipresenti nel nostro immaginario. E non è un caso: in Olanda, le arance erano amatissime, simbolicamente legate alla dinastia regnante degli Orange-Nassau.

4. Il cibo di Natale definito come tale

Intendiamoci: il Natale è sempre stato vissuto a stomaco pieno; la brava gente ha sempre avuto l’abitudine di portare in tavola qualcosa di particolarmente buono, il 25 di dicembre.

Nel corso del Settecento, però, accade una cosa nuova: i libri di cucina cominciano a includere delle ricette che vengono esplicitamente indicate come “dolce di Natale”. Evidentemente, stavano cominciando a emergere dei cibi che ormai erano legati indissolubilmente alla festa del 25 dicembre (e a quella sola – cioè non te li mangiavi in altri periodi dell’anno). Se non si fosse ammalata, oggi Mani di pasta frolla v’avrebbe proposto con molto piacere la ricetta del primo biscotto di Natale della Storia, o per meglio dire del primo biscotto ad essere mai stato definito tale: la ricetta di “A Christmas Cookie” fu pubblicata nel 1796 sulle pagine di American Cookery e costituisce appunto la più antica attestazione di un piatto esplicitamente legato alla festa del 25 dicembre. In attesa che Michela si riprenda e ce ne offra la sua versione, potete sbirciare la ricetta su questo sito.

5. Le canzoni di Natale

La più antica raccolta di canzoni natalizie risale al 1521 e viene stampata in Inghilterra, ma entro la fine del secolo la moda di intonare canti festivi doveva essere ampiamente diffusa in tutto il continente. Ne è prova il Piae Cantiones Ecclesiasticae et Scolasticae Veterum Episcoporum, una raccolta di canti natalizi che fu compilata nel 1582 a vantaggio dei canonici della cattedrale di Turku, nell’odierna Finlandia. Tra le pagine del volume, si nascondono settantatré canti natalizi, con testo e partiture, provenienti dalla Germania, dall’Inghilterra, dalla Francia, dalla Svezia, dalla Finlandia e dall’Italia.
A onor del vero: molti dei canti che sappiamo esser stati popolari tra il Cinque- e il Seicento oggi non vengono più cantati da nessuno, con l’esclusione di una ristretta cerchia di appassionati.
Per contro, è nel Settecento che nascono e si affermano alcune melodie amatissime ancor oggi: Tu scendi dalle stelle, Deck the Halls, The First Noel, O Tannenbaum (che sarebbe stata modificata più avanti, ma il cui nucleo originario risale al XVII secolo), God Rest You Merry Gentleman. Della quale non posso non postare questa rilettura esilarante che fa leva proprio sul poco comprensibile testo settecentesco: secondo me è una perla.

3 risposte a "Di come il secolo delle Rivoluzioni rivoluzionò anche il nostro modo di vivere le feste. Alla scoperta del Natale del Settecento"

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